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venerdì 17 dicembre 2010

IN PIEMONTE PAGANDO UN TICKET E' POSSIBILE SPARARE AGLI ANIMALI NELLE RISERVE, SACCHETTO (LEGA NORD): "E' UNA RISORSA TURISTICA"

La filosofia che ispira la riforma della legge regionale sulla caccia è semplice: il patrimonio faunistico viene considerato come una risorsa economica e l’attività venatoria diventa uno strumento per promuovere i territori ma anche per fare cassa. E così il Piemonte sarà la prima regione d’Italia a introdurre un ticket che darà il diritto di sparare all’interno dei parchi regionali e nelle altre aree protette a cervi, cinghiali e altri ungulati. E potranno farlo pure i cacciatori che arrivano da fuori Piemonte, anche se il diritto di caccia è limitato alle specie in sovrannumero.





È questa una delle principali novità della proposta di legge illustrata ieri dall’assessore all’Agricoltura e alla Caccia, Claudio Sacchetto (Lega Nord), e dal presidente della terza commissione del Consiglio regionale, Gianluca Vignale (Pdl). «Si tratta - spiegano - di un testo innovativo in grado di soddisfare da una parte le richieste dei cacciatori e dall’altra di promuovere e valorizzare l’attività venatoria come risorsa per il territorio».



Le aree protette La proposta di legge ammette l’intervento dei cacciatori nei piani di contenimento all’interno dei parchi attraverso il pagamento di un ticket. Saranno i singoli enti gestori dei parchi regionali a decidere l’ammontare dell’onere richiesto ai cacciatori in base anche alla storia (La Mandria a esempio era la riserva di caccia dei Savoia) e al capo abbattuto. Il provvedimento non interessa il Gran Paradiso e l’area protetta della Val Grande, oasi tutelata a livello nazionale.



Via libera alla radio La proposta di legge - il centrodestra chiederà alla conferenza dei capigruppo di indicarla tra le priorità da approvare in Consiglio regionale - cancella alcuni vincoli logistici ed operativi e «semplifica l’esercizio della caccia in conformità con la normativa nazionale». Si va dall’abolizione del divieto di utilizzo della radio all’ampliamento dei periodi previsti per l’immissione di esemplari di fauna selvatica, dall’inserimento di nuove specie tra quelle cacciabili (come la gallinella d’acqua e l’allodola) all’aumento delle specie cacciabili e dei carnieri giornalieri e stagionali.



I recinti di sparo Si tratta dell’allestimento di aree riservate che oltre a rispondere ad un’esigenza particolarmente sentita dal mondo venatorio e della cinofilia garantirà ricadute economiche non solo alle aziende agricole che le gestiranno, ma anche all’intero settore turistico-ricettivo.



Più giorni per cacciare Le giornate di caccia per il prelievo selettivo degli ungulati passano da due a tre e saranno distribuite durante l’arco della settimana per incentivare il cacciatore alla consegna dei capi abbattuti e favorire il completamento dei piani di abbattimento selettivi e numerici allo stato attuale difficilmente raggiungibili.



Il turismo venatorio La proposta di legge assegna alla giunta regionale il compito di disciplinare l’ammissione di cacciatori residenti in altre regioni per coprire i numerosi posti ancora disponibili e incrementare le entrate degli ambienti territoriali di caccia e dei comprensori alpini, «favorendo così il risarcimento dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole».

mercoledì 1 dicembre 2010

Fate schifo! (di Stefano Poma)

Ieri pomeriggio mentre parlavo al telefono con Andrea Demontis, m’informava sui contenuti del pezzo che stava scrivendo. La Camera non aveva ancora votato il ddl Gelmini, ma lui aveva già preparato l’articolo in cui ne raccontava l’approvazione e il voto a favore dei finiani. Io allora gli dissi “mi sa che devi riscrivere il pezzo perché vedrai che la Riforma non passerà. Ora che sta cadendo il governo, ma dai, non sono così stupidi”. E sbagliavo.

Con 307 voti favorevoli (anche quelli futuristi) e 252 contrari. E questo mentre il New York Times metteva in prima pagina la notizia degli scontri italiani tra studenti e poliziotti. L’immagine che accompagna l’articolo è stata scattata fuori dal Rettorato di Bologna, e immortala uno studente che, con un salto alla Bruce Lee, tenta di sferrare un calcio in pieno volto al poliziotto protetto da casco, scudo protettivo e manganello in mano. Sotto, la didascalia: “studenti in molte città italiane, compresa Bologna a cui si riferisce la foto, hanno protestato ieri contro l’aumento delle rette e i tagli alla formazione”.

Roma è occupata, Milano è occupata, Napoli è occupata, Palermo, Catania, così come Torino, dove prosegue l’occupazione del Palazzo Nuovo. Il mondo universitario è in ginocchio. Letteralmente allo sbando. E, i nostri parlamentari, la nostra politica, che fa nel momento in cui il governo B annaspa ed è pronto ai titoli di coda? Approva la più grande legge porcata che si poteva immaginare.

Un esempio: non è un fatto comune che, i docenti universitari, non tutti abbiano il titolo di Professore. Molti sono ricercatori. Bene, i dottori sono all’incirca il 40% dei docenti. E, con questa Riforma, all’articolo 12 leggiamo che “le università possono stipulare (ai ricercatori) contratti di lavoro a tempo determinato. Tre anni di contratto rinnovabili solo per altri tre”. E poi? A casa. E, coi tagli, non sarà possibile assumere nuovi ricercatori. Quindi il corpo docente si dimezzerà, in un sistema universitario dove, già oggi, ogni docente arriva ad avere 500 studenti. È capitato al sottoscritto, non è una farneticazione di Travaglio o di Grillo. Con i chiari disagi che si susseguono sia in ambito formativo che in ambito d’esame. Nessuno che può alzare la mano e dire “non ho capito”, perché altrimenti si crea un pollaio peggio di Ballarò. Esiti degli esami che vengono pubblicati sul sito dopo due mesi dalla data d’appello. E così via.

Ma come è possibile che una Riforma così, che in qualsiasi altro Paese del mondo vien definita un suicidio per questa classe dirigente, è riuscita a varare? Una soluzione sarebbe quella di guardare i volti dei nostri parlamentari e dei nostri politici. Se ci soffermassimo a fissarli per qualche minuto forse capiremmo il divario che c’è tra gli studenti e loro. Questa è gente frustrata che, come dice Grillo, non ha mai visto due tette. E, appena il padrone gliene offre “ingenti quantità”, diventano suoi schiavi. E la classe politica, i parlamentari, non rappresentano più il Paese, perdono il loro vincolo verso i cittadini. Si creano un mondo parallelo. Uno strato superiore.

E, questo dispotismo parlamentare, ha origini antichissime. Le prime elezioni per il parlamento che si tennero in Italia nel gennaio del 1861 e, quindi, subito dopo l’unificazione del Paese, volevano avere un carattere democratico. Era il popolo che governava se stesso, in pillole. Ma (non c’era ancora Giolitti e il suo suffragio universale) poterono votare solo 418.696 cittadini. L’1,9% della popolazione italiana. Dopo il viraggio del primo parlamento, un acuto osservatore oggi completamente dimenticato, tale Petruccelli della Gattina, ammoniva tutti gli affabulatori e i venditori ambulanti della parola democrazia. Ricordò che “il primo parlamento italiano comprendeva 2 principi, 3 duchi, 29 conti, 23 marchesi, 26 baroni, 50 commendatori e gran croci, 117 cavalieri, di cui tre della legion d’onore, 135 avvocati, 25 medici, 10 preti, 21 ingegneri, 4 ammiragli, 23 generali, un prelato, 13 magistrati, 52 professori o ex professori, 8 industriali, 13 colonnelli, 19 ex-ministri, 5 consiglieri di Stato, 4 letterati, 2 prodittatori, 2 dittatori, 7 milionari, 5 banchieri, 25 nobili senza specifica di titolo, altri senza alcuna disegnativa di professione e in più il maestro Verdi”. Concludeva il suo discorso con queste parole che, sarebbe bene, rapportarle ai nostri giorni: “non si dirà certo giammai che il nostro è un parlamento democratico del popolo! Vi è di tutto. Eccetto il popolo”.

E, in queste ore, in parlamento anziché della Riforma si stanno preoccupando di commemorare Mario Monicelli, il quale era uno dei più acerrimi nemici di questa classe dirigente. Il quale sin dal primo istante ha criticato questa Riforma. E, se anziché occuparsi dell’uomo Monicelli, ma di quello che pensava e diceva, forse, farebbero un po’ meno schifo. Ma sono parlamentari. E a loro insaputa.

Pompei continua a crollare e per Bondi va tutto bene

E PERCHÉ ora gli studenti non portano la protesta anche nella vacillante Pompei dove ieri è crollato un altro muro e il ministro Bondi dice che non è successo niente? Sette metri del perimetro che circonda la Casa del Moralista si sono sbriciolati e davvero sembra che anche le pietre di Pompei si stiano ribellando. La cultura morta come la cultura viva, la prima maltrattata per irragionevole incuria e la seconda per ragioneria contabile. Forse gli studenti dovrebbero davvero occupare la Domus di Giulio Polibio, presidiare tutti i luoghi d'Italia nei quali la cultura è in sofferenza come all'università: l'anfiteatro di Santa Maria Capua a Vetere è come il liceo Virgilio di Roma, la reggia di Nerone è come la Normale di Pisa. È di ieri la denunzia del sovrintendente dell'Emilia Romagna, Luigi Malnati, sul degrado dei siti archeologici: "ormai tutto il Centro Nord è come Pompei" perché nel peggio si ricompone l'Unità d'Italia e "qui non ci sono più neanche i custodi".



Ma nei crolli di Pompei e fra le rovine che vanno in rovina c'è finita pure la tragicomica personalità del ministro dei Beni Culturali che di nuovo minimizza e nega dinanzi allo sgomento del sovrintendente Jeannet Papadopulos e all'indignazione del mondo. E forse Bondi minimizza perché Pompei sta diventando la linea di forza delle sue vertigini, dei suoi sensi di colpa. Bondi, lo diciamo con dispiacere, ha spinto la sua mistica berlusconiana al punto da immolare la propria

dignità ai piedi della favorita bulgara del capo, Michelle Bonev.



Il ministro che ha bocciato film come "Il divo", "La prima linea" e il Draquila della Guzzanti - tutti senza averli visti -, il Bondi che ha bollato come parassiti di Stato i cineasti italiani che gli sembrano troppo di sinistra, ha invece promosso e poi premiato a Venezia un film che Rai Cinema ha infatti finanziato con un milione di euro, già tutti versati alla Bonev. Il film fa parte di un accordo strategico di coproduzione televisiva Italia-Bulgaria firmato da Bondi e dal suo collega balcanico. E tutti capiscono che oltraggiare la cultura è sempre uno scandalo penoso, ma Bondi è troppo intelligente per non vedere ora in questi crolli di Pompei la misura della propria dannazione, lo specchio della propria nudità, la vendetta delle pietre d'Italia contro il cortigiano del Principe.



Cosa si poteva restaurare, proteggere, conservare a Pompei con quel milione di euro versato alla musa bulgara così piena di grazia e di gloria? Poco forse, ma abbastanza per potere affrontare a viso aperto la reazione del mondo civile. Non esiste infatti Paese del pianeta dove non sia nato un comitato anti Bondi: "Stop Killing Pompeii Ruins". Cos'altro può fare se non minimizzare e arrossire il ministro che con quelle rovine ha un conto aperto, un conto personale, intimo?



E non è tutto. Il ministro tiene famiglia e dunque ha sistemato al Centro di Cinematografia il figliastro e ha dato una consulenza di Moda e Arte all'ex marito della sua attuale moglie, la collega di Camera e di partito, Manuela Repetti: "Sono due casi umani e non ho violato alcuna legge", si è giustificato con i colleghi del Fatto quotidiano. Non è il primo e non sarà nemmeno l'ultimo potente italiano a mettere l'economia domestica davanti al bene pubblico, ma Bondi che, appena risposato, si è, per dirla poeticamente, "fatto ingravidare" dalla moglie, ha alimentato i redditi e gli affetti familiari più degli investimenti a Pompei dove, attorno agli scavi, sorgono costruzioni abusive, folle di miserabili si propongono come guide e la sola attività ben curata dallo Stato è quella di strappare biglietti e fare cassa. Ma il danaro del turismo non basta a rendere eterna la rovina mummificandola. Certo, sarebbe ingiusto dare a Bondi tutta la colpa di un'incuria che viene da lontano, ma nessun governo aveva così tanto maltrattato la cultura italiana, nelle aule dove si costruisce il futuro e nelle vestigia dove si conserva il passato. Come abbiamo già scritto c'è più scienza del restauro e più tecnica della conservazione nel viso rifatto di Berlusconi che nei ruderi di Pompei. Davvero quei crolli sembrano appunto la rivolta delle pietre, è come se chiamassero gli studenti italiani: la cultura viva e la cultura morta unite nella lotta.