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sabato 7 agosto 2010

«Mafie e politica. 150 anni di rapporti ininterrotti»

È opinione prevalente tra gli storici che l’origine del fenomeno mafioso italiano sia legato alle due leggi di eversione della feudalità, 1808 nel regno di Gioacchino Murat e 1812 nella Sicilia anglo-borbonica1.
È a partire da queste date che si sviluppa una peculiare forma di criminalità inesistente nel nord Italia, ma anche nella maggior parte del Mezzogiorno e nell’Europa occidentale.

Si hanno prove storiche di un uso della mafia siciliana e della camorra napoletana da parte delle autorità politiche e di polizia, in funzione di controllo della carboneria e della microcriminalità. Tuttavia il rapporto tra il potere politico e le organizzazioni criminali si svolge in un solo senso: le autorità influenzano e dirigono l’azione delle cosche mafiose e camorriste, in maniera utile al potere borbonico, ma – data la natura autoritaria di quest’ultimo – non esiste la possibilità per le organizzazioni criminali di esercitare una influenza verso il potere politico orientandone le scelte. Bisognerà attendere l’unità d’Italia, il sistema liberale e l’introduzione delle elezioni politiche e amministrative perché nasca questa nuova potenzialità.

I clan capiscono subito che sostenendo le elezioni di questo o quell’altro politico possono poi utilizzare lo stesso per i propri fini influenzando attraverso essi le decisioni dei diversi Enti dello Stato, nasce così quello che noi oggi definiamo “voto di scambio” e nasce il moderno fenomeno mafioso.

Marco Monnier si accorge subito di questo mutamento qualitativo e del nuovo rapporto che va a determinarsi tra organizzazioni criminali e potere politico. Nel suo libro-inchiesta del 1863 sulla camorra napoletana così si esprime: “Tutti quei bravi dei mercati di Napoli non si contentavano di rubare pochi soldi ai sempliciotti: erano addivenuti uomini politici. Nelle elezioni proibivano tale o tal’altra candidatura, confortando co’loro bastoni la coscienza e la religione degli elettori. Né si contentavano di inviare un deputato alla camera, e sorvegliarne da lungi la condotta; spiavano il suo contegno, si facevano leggere i suoi discorsi, non sapendo leggerli da sé medesimi2.

Se ne accorge anche il Prefetto di Reggio che nel 1869 ottiene l’annullamento delle elezioni amministrative perché condizionate dall’attiva presenza di mafiosi. “I giornali locali scrissero apertamente di mafiosi che giravano impunemente per le vie della città e denunciarono il fatto che i partiti fossero obbligati a far transazioni con gente di equivoca rispettabilità”3.

E se ne accorge Leopoldo Franchetti nel 1876: “Difatti, si sente raccontare che la tale o tal’altra persona influente in politica o nelle amministrazioni locali ha a suo servizio il tale o tal altro capo mafia di Palermo o di un paese vicino, e per mezzo suo, una parte di quella popolazione di facinorosi per mestiere o per occasione, che infestano la città e i suoi dintorni”4.

Il nuovo rapporto mafie-politica che nasce con l’unità d’Italia e il sistema liberale non è stato mai semplice, lineare; ha vissuto alti e bassi, alternandosi in periodi di più o meno intense collaborazioni o repressioni.

Ogni qualvolta l’agire delle bande criminali ha raggiunto livelli tali da mettere in crisi la legittimità a governare del ceto politico è scattata la repressione per limitarne la portata.

In 150 anni di storia unitaria, si sono avvicendate diverse ondate repressive, nessuna delle quali si è però dimostrata risolutiva e nel corso delle quali il rapporto mafie-politica mai si è spezzato.

Nel 1898, vent’anni dopo la prima grande andata repressiva del prefetto Malusardi nella Sicilia occidentale, il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, lamentando le difficoltà nella lotta alla mafia così si esprime ” “… sgraziatamente i caporioni della mafia stanno sotto la tutela di Senatori, Deputati e altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono per essere poi, alla loro volta, da loro protetti e difesi”5.

Cesare Mori, dopo aver liquidato, nel biennio 1926-28 la rete di clan nella Sicilia occidentale, volge la sua attenzione ai rapporti tra mafia e potere nell’isola, per colpire la rete politica di sostegno ai clan.

Travolge con le sue inchieste il generale Antonino Di Giorgio, comandante del 2° corpo di armata di stanza in Sicilia, e il federale di Palermo Alfredo Cucco, detto il ducino. La sua azione si spinge fino a coinvolgere il viceministro degli interni Michele Bianco. A questo punto, il 16 giugno 1929, Cesare Mori riceve il seguente telegramma: “Con regio decreto V. E. è stata collocata a riposo per anzianità di servizio a decorrere da oggi 16 giugno. F.to Il Capo del Governo”. Mussolini aggiunge di suo pugno:”La ringrazio dei lunghi servizi resi al paese”6.

Di Giorgio se la caverà con le dimissioni, Cucco verrà assolto dai 33 capi di imputazione che Mori e il Procuratore Giampietro gli avevano addossati, Michele Bianchi continuerà tranquillamente a fare il vice ministro.

Ancora più oscure e inquietanti le vicende relative alla morte di Falcone e Borsellino e agli attentati del 1992-93, che stanno ultimamente emergendo circa il coinvolgimento di “pezzi deviati” dello Sato nella gestione della strategia terrorista di cosa nostra.

Ora, se uno specifico fenomeno criminale – la cui caratteristica fondante è data dalla capacità di intrecciarsi alla politica e penetrare negli apparati dello Stato – in 150 anni di storia unitaria non è stato eliminato, la conclusione non può che essere la seguente: è mancata la volontà politica a farlo.

Il ceto politico italiano, dall’unità ad oggi, non è stato in grado di spezzare i legami con le organizzazioni criminali di tipo mafioso, così come non ha saputo o voluto risolvere alcune altre questioni connesse al processo di unificazione nazionale e allo stesso fenomeno mafioso:

* Il divario socio economico Nord-Sud
* L’elevato e costante livello di corruzione7
* La diffusa (al Nord come al Sud) pratica clientelare
* Il vasto sentimento antipolitico che ciclicamente riemerge nella storia contemporanea italiana.

Va precisato che quando parliamo di “ceto politico” non ci riferiamo alla totalità delle persone che lo compongono, ma alla posizione politica in esso dominante, spesso trasversale a più partiti politici8.

Vi sono state figure gloriose di politici che nella lotta alla mafia hanno sacrificato la propria vita: da Bernardino Verri, sindaco socialista di Corleone, ucciso nel 1914, al democristiano Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, al deputato comunista Pio La Torre, per non parlare poi di oltre un centinaio di sindacalisti, capilega, segretari di sezione e consiglieri comunali del PCI uccisi da cosa nostra tra il 1947 e il 1960.

Entrare, quindi, nel merito e specificare le responsabilità del ceto politico italiano ci sembra, pertanto, opportuno per non coinvolgere ingiustamente nel giudizio negativo quella minoranza di politici che ha lottato e lotta contro le mafie, ma soprattutto per individuare i diversi livelli di responsabilità e possibili strategie di contrasto del movimento antimafia.

Il primo livello di responsabilità – il più grave – è di quella parte del ceto politico italiano che nel corso di un secolo e mezzo ha utilizzato sistematicamente i clan mafiosi in funzione di controllo delle opposizioni sociali e politiche.

Nelle fasi più critiche della storia unitaria, nelle regioni meridionali, si è avvertito con più chiarezza il legame mafie-politica e il nefasto ruolo dei clan nel controllo e contenimento delle forze sociali e politiche antigovernative.

È quanto si può evincere dall’inchiesta di Leopoldo Franchetti per il primo quindicennio della Sicilia italiana; dalla repressione del movimento dei fasci siciliani (1892-94)9, ma soprattutto dalla fase post bellica della 2° guerra mondiale10.

Un secondo livello di responsabilità riguarda quell’insieme di politici che riducono la questione mafiosa a problema di mera criminalità, relativo alle regioni meridionali, e da risolvere con gli strumenti della repressione.

Si tratta di un atteggiamento pernicioso, assunto a volte in buona fede, che ha nuociuto e nuoce gravemente all’azione di contrasto dell’espansione della criminalità di tipo mafioso.

Il caso più emblematico in proposito è quello della Puglia. Regione priva di un insediamento mafioso storico, diversamente dalle altre tre meridionali, è stata “colonizzata”, a partire dalla fine degli anni ’70 e nel corso degli anni’80 del secolo scorso, dalle altre tre mafie storiche: camorra, cosa nostra e ‘ndrangheta.

La nascita in Puglia di una rete di clan è stata largamente favorita da un irresponsabile atteggiamento di sottovalutazione della minaccia, fatta di una insistente attribuzione alla criminalità comune di ogni fatto delittuoso di criminalità mafiosa.11

Analogo discorso vale per le regioni del Centro-Nord. Ancora oggi in Lombardia, benché ogni indicatore oggettivo (numero di arresti per l’art. 416bis C.P., quantità di processi di mafia e conseguenti espropri di beni) e i censimenti della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) ci dicano che ci troviamo in presenza della quarta regione mafiosa d’Italia, la convinzione più diffusa è quella di una sostanziale estraneità della società civile e politica lombarda al fenomeno mafioso.

Un terzo tipo di responsabilità può essere attribuito a quei politici che, pur nemici dichiarati dei clan, hanno adottato o adottano metodologie analitiche del fenomeno mafioso che tendono a considerare la questione mafiosa come peculiare aspetto del capitalismo italiano.

In altri termini, una sorta di sottoprodotto del capitalismo di cui ci si libererà allorquando si avvierà il processo rivoluzionario di superamento del capitalismo.

Era questa la visione tipica dei comunisti italiani nel secolo scorso, ed è questa che in qualche misura sopravvive nella “teoria della borghesia mafiosa”12, molto diffusa nella sinistra radicale attuale, una visione che tende a spostare in un indefinito futuro la soluzione della questione mafiosa.

Infine, veniamo a quella che è, a mio avviso, la principale responsabilità del ceto politico italiano nella sopravvivenza del fenomeno mafioso.

L’unificazione nazionale (e l’avvento del regime liberale) è avvenuta con la sostanziale estraneità, se non aperta ostilità, della stragrande maggioranza dei ceti popolari italiani, operai e contadini, alla quale si era aggiunto l’astio del Vaticano, con il conseguente divieto per i cattolici di partecipare alla vita politica del nuovo Stato.

La debole borghesia italiana si è trovata, per sua scelta, costretta a rinunciare immediatamente ai propositi federalisti e invogliata a utilizzare ogni strumento per il controllo delle opposizioni sociali e politiche.

Corruzione e clientelismo sono presto entrati a far parte di questo strumentario, favoriti dall’eredità Piemontese dove la magistratura inquirente era sostanzialmente sottoposta al potere politico e ciò consentiva ampi spazi di manovra ai politici13.

Elargizioni di quote di bilancio dello Stato a potentati e maggiorenti politici locali – da gestire con criteri privatistici – era una condizione necessaria per mediare e tenere unite, intorno ad un centro nazionale, le variegate realtà locali e gli strati sociali popolari.

Questo schema non muta né con il regime fascista né con l’avvento della Repubblica.

Per lo storico anglosassone Christopher Duggan, il fascismo provò ad annullare la separatezza tra Stato e ceti popolari con la retorica nazionalistica, senza però rinunciare al ruolo di mediazione dei ras politici locali14.

Nel quarantennio democristiano il ruolo di raccolta del consenso mediante il clientelismo si accentuò ulteriormente e l’opposizione comunista non fu da meno nelle aree da lei amministrate.

Con il berlusconismo, la delegittimazione del potere giudiziario e alcune modifiche legislative (cosiddette leggi ad personam) hanno fortemente indebolito l’azione di contrasto della magistratura verso la corruzione.

Ora, la corruzione rappresenta il terreno sul quale avviene l’incontro tra clan criminali e politici.

Il politico corretto rifiuta profferte di sostegno elettorale del clan, quello corrotto le accetta e la sua futura azione ne resta condizionata. Clientelismo e voto di scambio sono gli strumenti di penetrazione delle mafie nello Stato.

Il persistente rifiuto del ceto politico italiano a sottostare ai controlli di legalità sul proprio operato e l’ostinazione a tenere in vita una sorta di “Stato patrimoniale” (per i criteri privatistici con i quali nei fatti è gestito) consentono livelli elevati di corruzione e clientelismo che a loro volta aprono le porte dello Stato ai criminali.

Se le considerazioni sin qui fatte hanno un senso allora il fenomeno mafioso è da considerarsi eminentemente un prodotto della politica italiana e conseguentemente potrà essere definitivamente estirpato solo con una piena effettiva affermazione dello Stato di diritto; uno Stato nel quale i diritti costituzionali non siano più una concessione dei gestori della cosa pubblica ma appartengano ai cittadini in quanto tali.

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