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sabato 7 agosto 2010

Trent’anni fa l’omicidio del giudice Costa. Tradito dallo Stato e dai suoi sostituti

“Chi si ricorda più del giudice scomodo Costa?” scriveva in un suo celebre libro Claudio Fava. Un sacrificio lontano rimosso dalla coscienza nazionale per un omicidio rimasto senza nessun colpevole dal punto di vista processuale. Acuto e duro nella lotta alla mafia il magistrato siciliano Gaetano Costa. Un procuratore della Repubblica che a Palermo sconvolge gli equilibri paludosi del Palazzo di Giustizia e indaga sui delitti eccellenti della fine degli anni Settanta coniugando la tecnica giudiziaria alla conoscenza del fenomeno mafioso. Chiamato a Roma dal ministro di Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino, per relazionare sullo stato delle cose a Palermo, nel chiuso dell’ufficio, alla fine del discorso, testimonia Giacomo Spataro, all’epoca presidente del tribunale del capoluogo siciliano: “di scatto si alzò ed assumendo un’espressione di dura fermezza, accompagnato da un gesto della mano, quasi a significare la forza dell’opinione che stava per manifestare, come a far intendere che una tale forza, una tale fermezza, un tale rigore erano mancati nella lotta alla mafia disse queste poche parole «la mafia si può vincere colpendola nelle ingenti ricchezze accumulate, nella sua ingente forza finanziaria, nei suoi forzieri, nei canali ingegnosi attraverso i quali passa il flusso di queste ingenti ricchezze grondanti di sangue, di molto sangue, di quello versato dalle vittime». Tra quelle vittime presto ci sarà anche lui. Isolato da molti in quel Palazzo che di Giustizia ne dispensava poca. Con un percorso inverso a quello di Mario Amato, sostituto lasciato solo dal suo capo. Per Costa accade l’esatto contrario. Il procuratore ha un’idea antesignana del pool. Indagini collettive degli inquirenti per impedire che si possano creare dei bersagli. Ma il progetto crolla in una celebre riunione della procura di Palermo il 9 maggio del 1980. Tre mesi dopo Gaetano Costa sarà ucciso. Il procuratore della Repubblica sa che carabinieri e polizia su iniziativa del questore stanno ricucendo una delicata inchiesta che va oltre lo Stretto di Messina e mette in relazione Palermo con Milano, Torino con Roma. Costa, da parte sua, lavora ad una pista consistente che lega politica e mafia. E’ stato a stretto contatto con Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione Sicilia che ha denunciato vicende legate agli appalti per la costruzione di alcune scuole affidati a ditte riconducubili alla mafia. Ma il giorno dell’Epifania di quel tragico anno Mattarella, mentre va a messa, viene ucciso. Pochi giorni prima della riunione voluta da Costa la mafia ha ucciso alla fine di una processione a Monreale il capitano dei carabinieri, Emanuele Basile. Il contesto è difficile. Anche in questura a Palermo la situazione è complicata dopo la morte del capo della Mobile, Boris Giuliano, avvenuta l’anno precedente mentre la vittima si recava al lavoro. I poliziotti hanno sospetti su alcuni giudici e hanno paura di redigere rapporti che si possono tramutare in condanne a morte. Il fronte della fermezza a Palermo è costituito da Costa, dal questore Immordino e dal consigliere istruttore Rocco Chinnici che è solito incontrare il procuratore della Repubblica in ascensore per impedire che qualche talpa intercetti le loro parole.
A Costa, pochi giorni dopo l’omicidio Basile, giunge un rapporto. Il questore Immordino scrive che Rosario Spatola, i Gambino a New York e gli Inzerillo detengono il monopolio dell’eroina nel mondo. Per Spatola stanno per scadere i termini della custodia cautelare. Costa “è un giudice prudente” riferirà al Csm Rocco Chinnici dopo il suo omicidio. Guarda e riguarda il rapporto. Convoca una riunione di tutti i sostituti per il 9 maggio nella sua stanza. La sera precedente a casa del sostituto Scicchitano quelli intenzionati a far fronda guardano le carte coperte da segreto istruttorio e decidono per il pollice verso.
Costa propone di emettere 55 ordini di cattura. Indica lacune e positività del rapporto. Fa capire a chiare lettere che va dato un segnale di fermezza. I sostituti si mostrano scettici. Lui ne ha parlato anche con il procuratore aggiunto Gaetano Martorana che si era mostrato accondiscente verso la sua linea. Ma si guarda bene del partecipare alla riunione. Si legge nei diari di Costa dopo la sua morte un appunto del 9 settembre del 1978 scritto a futura memoria di Martorana: “A suo criterio dovrei solo svolgere funzioni di rappresentanza e in effetti è riuscito (finora) ad isolarmi di fatto e a far filtrare fino a me solo pochissime pratiche…. Credo che sarebbe felice se potesse internarmi”. In quella riunione in cui si devono decidere gli arresti nell’ufficio del procuratore della Repubblica ogni nome di mafioso è uno scoglio insormontabile. Costa comprende. Croce e Scicchitano che hanno interrogato gli arrestati argomentano con garantismo il no alle manette. Costa ribatte le sue idee. Uno dei due gli dice “Allora se li firmi lei”. Dirà 12 anni dopo al processo per l’omicidio nella sua arringa l’avvocato di parte civile Zupo: “la sfida è stata raccolta senza parole, senza questioni, col semplice tratto di quella firma solo un po’ più dilatato e grande del solito… Perché Costa come il capitano Bellodi di Sciascia è un uomo e non un ominicchio o un quaquaraquà”. Costa ringrazia tutti e resta solo nel suo studio “consapevole di aver imboccato una strada senza ritorno”. Fuori da quella stanza aspettano gli avvocati dei mafiosi e i loro parenti e i giornalisti che già hanno odore e sentore di quello che sta accadendo. Croce con un sorrisetto obliquo sulle labbra e Scicchitano con una certa drammatizzazione fanno trapelare subito la notizia che il procuratore ha deciso di firmare da solo i 55 mandati di cattura. Palermo trasmette la notizia di bocca in bocca e l’indomani è pronta a commentare i resoconti dei giornali.
Fa una scelta solitaria in stile con la toga molto particolare quel signore di 64 anni abbattuto dal piombo mafioso nel centro di Palermo a pochi metri dalla prefettura. “Un antisimbolo” scrive Mario Farinella all’indomani della sua morte su L’Ora di Palermo tratteggiando questo ritratto: “Era l’antisimbolo per cultura, per educazione, per naturale disposizione. Si considerava ed era soltanto un caparbio amministratore della giustizia, un uomo apparentemente comune, disadorno, dalla vita semplice, essenziale nelle parole, nei gesti, nel lavoro e perciò era un magistrato di audace modernità, razionale e puntiglioso, di raro rigore morale e intellettuale”. Era nato il primo marzo del 1916 a Caltanissetta. Piccolo di statura, sempre gilet e giacca, di ottima cultura umanistica ricavata da ore di lettura. A Caltanissetta consegue la licenza liceale. Poi studia Legge a Palermo. Da ragazzo aderisce al Partito Comunista siciliano clandestino. Infatti insieme alla moglie Rita Bartoli, discendente di patrioti carbonari, aderisce alla sinistra frequentando il circolo di cospiratori che annovera Emanuele Macaluso, Leonardo Sciascia, Gino Cortese. Vince il concorso in magistratura e inizia la sua carriera a Roma. Si arruola nell’aviazione e come ufficiale ottiene due croci di guerra. Alla data dell’otto settembre è uno di quelli che sceglie la via del riscatto e la parte giusta. Raggiunge la Val Susa e combatte con i partigiani. Torna a Caltanissetta dove diventa sostituto procuratore. Restituisce la tessera al partito. Si occupa della mafia di campagna e del rapporto con gli agrari. Ne coglie le trasformazioni imprenditrici nell’assalto ai centri urbani. Nel 1966 diventa procuratore capo a Caltanissetta. Per capire la sua conoscenza della mafia sono inoppugnabili le dichiarazioni che rende alla Commissione parlamentare Antimafia che arriva in Sicilia nel 1969 “In un certo paese ad esempio, il sindaco, concede un appalto e prima lo fa regolarmente. Ma la regolarità è solo apparente, in quanto effettivamente invitato è soltanto uno: gli altri non sono stati invitati; però si fa figurare che lo siano stati, e l’appalto viene dato al primo”. E gli esempi che pone Costa tratti dalla sue esperienza sono da manuale: i concorsi, la punizione della guardia municipale onesta, la licenza di un distributore che ostruisce la strada, le certificazioni false previdenziali. I profitti illeciti e il sistema di potere che opprime. E Costa quando nessuno mette il naso in certe faccende a Caltanissetta compie accertamenti nella Banca rurale di Mussomeli, nella Banca Artigiana di San Cataldo, alla filiale del Banco di Sicilia di Campofranco. Fanno clamore manette a clienti, banchieri, funzionari. I colletti bianchi locali temono Costa che fa compiere accertamenti alla Banca d’Italia scoprendo che i miliardi di un crac erano legati agli appalti della mafia imprenditrice.
Costa è anche un magistrato tecnicamente dotato. Nel 1970 quando partecipa al concorso per la promozione in Cassazione, il presidente della sessione, Flores, presidente vicario della Suprema Corte e eminente giurista affermerà: “Ho letto i suoi titoli, il suo curriculum e ritengo di dire che ci troviamo di fronte ad un magistrato di grande valore”.
Sono elementi utili alla grande svolta del 1978. Il quadro politico nazionale e siciliano modificato dalla collaborazione dei comunisti che appoggiano esternamente i due governi e le nuove irruenze della mafia inducono ad un passaggio epocale deciso dal Csm. Il nuovo procuratore della Repubblica a Palermo è estraneo alla città e non fa parte della corrente di Magistratura indipendente. L’ex procuratore Giovanni Pizzillo diventa procuratore generale. A Palermo nella procura centrale della mafia arriva Gaetano Costa. Uno che viene da Caltanissetta con le sue specifiche competenze su Cosa Nostra. Una toga rossa particolare che non aderisce per esempio a Magistratura democratica ma che ha invece la tessera dell’Unione Magistrati italiani, che ben spiega il giudice Di Lello: “è tanto corporativa da essere anacronistica: scomparirà con l’avvento del sistema proporzionale nelle elezioni per il Csm”.
Una toga rossa a Palermo mette i brividi a tanti. Anche se Emanuele Macaluso in un ricordo postumo sostiene: “Posso testimoniare che in quarant’anni di amicizia Costa non parlò mai, con me e con altri, di vicende giudiziarie, di fatti che lo coinvolgessero come magistrato”. Certo un ex partigiano con la schiena dritta che sa come combattere la mafia mette agitazione sotto il Monte Pellegrino. Quando nel febbraio si ufficializza la nomina la palude giudiziaria si agita come testimonia una bella inchiesta del giornalista Sottile sul “Giornale di Sicilia” che ben ricostruisce quel contesto. I nomi attesi erano altri per quella carica fondamentale per gli equilibri palermitani. Costa non era stato messo in conto da nessuno quindi scrive “Il suo successo ha sovvertito ogni previsione, ha stravolto ogni progetto. Ora rischia di intaccare ogni preordinato equilibrio di potere”. Perché a Palermo l’azione penale mette a rischio imperi finanziari, politici ed economici enormi. Il primo contraccolpo non si fa attendere. Infatti Pizzillo evita la consuetudine del “possesso anticipato” ritardando per mesi la prassi che prevede l’avvicendamento immediato del nuovo procuratore. Quel ritardo provocherà la lettura terroristica della morte di un giovane dilaniato dall’esplosivo a Cinisi nel maggio del 1978. Si chiama Peppino Impastato. Saranno il nuovo procuratore Costa e il consigliere istruttore Rocco Chinnici a tracciare i primi indizi che anni dopo condurranno alla condanna di Tano Badalamenti. Tano Costa aspetta il suo insediamento. Ligio al suo carattere intransigente si presenta a modo suo nel discorso d’investitura. Dopo strette di mano e saluti Costa afferma: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti di inimicizia, di interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”. Il sasso è lanciato e in molti hanno capito che lo scontro arriverà molto presto.
A Palazzo di Giustizia l’anno successivo si somma la notizia dell’arrivo di Cesare Terranova. La mafia risolve temporaneamente il problema uccidendo il futuro capo dell’ufficio istruzione. Ma il Csm lo sostituisce con Rocco Chinnici che presentandosi a Costa afferma : “Non ti farò rimpiangere Cesare”. Finisce la tregua giudiziaria. Le inchieste sulla mafia e la pubblica amministrazione riprendono fiato. L’ufficio ha punti di riferimento certi. Costa chiede ai sostituti di lavorare su poche indagini da condurre al processo. Termina la stagione dei faldoni che si accumulano sulle scrivanie. Costa raccoglie subito l’allarme sottoposto da Piersanti Mattarella sull’appalto concorso per la costruzione di sette scuole a Palermo aggiudicato da sette ditte che hanno partecipato da sole ad ogni singola gare. Proprio il caso di specie che Costa aveva illustrato alla Commissione antimafia nel 1969.
Quella celebre riunione del 9 maggio nella sua stanza è la concretizzazione di quanto Costa aveva profetizzato nel suo discorso d’insediamento. Con gli interlocutori ostili siamo a qualcosa in più della lite. Lui inavvicinabile, e forse anche scostante, in rotta con i mediatori che mai avevano associato la mafia alla gente che conta con il denaro e il potere. Con il procuratore generale Pizzillo gli scontri si erano già manifestati dai tempi di Caltanissetta. Con il procuratore aggiunto Martorana il rapporto si può definire distaccato e freddo pur se segnato da un vicendevole rispetto formale. Un quadro difficile, Costa deve operare nell’ambito di inchieste che non si erano mai viste a Palermo. Dopo la riunione del 9 maggio tutto si complica. Costa si sfoga con Chinnici discutendo del presunto garantismo dei suoi antagonisti: “ Ma quali garantisti, di questi solo tre sono garantisti sul serio, degli altri la metà ha paura e l’altra metà è in malafede” . Costa ha personalmente firmato il 15 ottobre del 1979 le indagini per gli appalti delle scuole che annoverano i nomi di Rosario Spatola. Salvatore Inzerillo e dei Gambino. E la Guardia di Finanza ritrova nell’ufficio di Vincenzo Spatola documenti del comune di Palermo che non potrebbe possedere. Quello stesso Spatola che incrocia gli affari e i ricatti del finanziere siciliano Michele Sindona. L’omicidio di Piersanti Mattarella è una risposta a quell’indagine. Il procuratore di Palermo la amplia puntando ai mandanti di quel clamoroso delitto politico. Costa è anche il procuratore che accoglie la richiesta della Guardia di Finanza di procedere ad inchieste bancarie sui conti sospetti. Costa affiderà queste delicate indagini ad un ineccebile colonnello della Guardia di Finanza. Il colonnello Pascucci. Lo fa il 14 luglio in un Palazzo di Giustizia vuoto insistendo sulla “necessità” di quelle indagini. La moglie del colonnello stranamente viene avvicinata per strada, qualcuno le dice in siciliano “signora raccomandi al comandante di non approfondire troppo le indagini”. Chi ha avvisato i compari della delicata inchiesta che puntava a scoprire i mandanti dell’assassinio Mattarella? Qualcuno a Palazzo di Giustizia? Non ci sono prove in tal senso. Una sola è la certezza. Contro ogni logica dopo l’omicidio Costa il colonnello Pascucci viene trasferito. Il colonnello Pizzuti testimonierà al processo Costa che la P2 si era preoccupata della vicenda considerato che il comandante nazionale delle Fiamme Gialle dell’epoca più che alla Repubblica rispondeva agli interessi di Licio Gelli. Un altro sconcertante fatto è certo. La Guardia di Finanza non completerà mai quell’indagine bancaria disposta su tutto il territorio nazionale.
Ma già prima dell’incarico a Pascucci si registra un particolare insolito nella carriera del magistrato. In 36 anni non ha mai parlato di vicende d’ufficio in famiglia. Invece ad un mese dal suo omicidio, Costa alla moglie e al cugino Aldo, giornalista dell’Ora, comunica che ha chiesto un rapporto di polizia sulle scuole e sui vincitori dell’appalto. Qualcuno ha anche dato un’indicazione di massima dicendo che la vicenda ruota attorno al politico democristiano Vito Ciancimino.
La signora Rita intuisce che il marito ha voluto lasciare una testimonianza per un fatto più grave del solito e infatti quel giorno non si reca ad un matrimonio dove era stata invitata assalita da tristi presagi. Costa ormai cammina sull’orlo di un precipizio. E’ ansioso di avere in mano gli esiti delle indagini ordinate alla Guardia di finanza. La moglie preoccupata chiede al marito, in quei drammatici giorni, se ha avuto notizie da Pascucci, ma il magistrato risponde che “è ancora troppo presto”.
Il 6 agosto del 1980 la famiglia Costa è alla vigilia della partenza per le vacanze a Vulcano. In mattina è stato in Procura. Poi uno sguardo ai funerali delle vittime della strage di Bologna. Le valige delle vancaze sono già pronte . Il giudice è sdraiato sul divano prima della sua ultima passeggiata. La moglie, evidentemente in grand’ allarme, torna a chiedere di quel rapporto. “Penso che me lo consegneranno dopo che torno da Vulcano” risponde il procuratore. Ma a Vulcano Costa non arriverà mai. Un sostituto che aveva la foto del giudice sul tavolo aveva ben pensato di scriverci sopra “Vi sono uomini di cui si può comprare solo la morte”. Il giudice che aveva scelto di camminare sull’orlo del precipizio non voleva la scorta. Aveva detto a proposito “Vi sono uomini che hanno diritto di avere paura ed altri che hanno il diritto del coraggio”. Non c’è dubbio che Costa avesse coraggio. A quel tempo era l’unico magistrato che aveva diritto alla scorta e all’auto blindata, ma non la voleva utilizzare per non mettere a repentaglio la vita di nessuno. Il questore Nicolicchia, che ha sostituito Immordino, quello del rapporto che è andato in pensione, contro il volere del magistrato, per predisporre, in occasione della partenza. Un rigido sistema di vigilanza. Nessuno ha previsto il servizio di scorta per il ritorno da Vulcano. In quella calda sera del 6 agosto nel centro di Palermo non si vedono divise in giro. La rabbia e la teoria del complotto nel corso del tempo farà arrovellare sul fatto che il capo della Mobile a Palermo fosse Impallomeni, altro iscritto alla solita P2 di Gelli. Il senatore Amintore Fanfani avrà parole di grande biasimo nei confronti delle forze dell’ordine per non aver saputo tutelare il procuratore della Repubblica di Palermo.
Dopo aver risposto alla moglie su quel rapporto Tano Costa si alza e si veste. Esce per far scorta di libri da leggere durante le vacanze. La direzione è verso la vicina bancarella di via Cavour, vicino al Supercinema Excelsior, a due passi dalla birreria Italia e dalla Banca d’Italia. Sono le 19. Costa è solito far questa visita per trovare qualche lettura di buon gusto. Arriva sul posto alle 19,15. Il solito sguardo ai titoli, la richiesta di un giallo che sfoglia con interesse. Commento sul prezzo e qualche chiacchiera con il libraio Angelo Panarello. C’è anche un altro signore che curiosa al banco. Sono le 19,23. Gaetano Costa è solo su quel marciapiede. Come solo era rimasto a Palazzo di Giustizia fidandosi soltanto di Rocco Chinnici. Un giovane smilzo scende da un A112 e gli va incontro con andatura veloce. In macchina resta l’autista. L’auto bruciata verrà poi trovata dietro la chiesa di San Domenico. Il killer punta e spara per due volte. Poi il colpo di grazia. Ma non muore Gaetano Costa con quei tre proiettili ad espansione di fabbricazione americana esplosi da un revolver Smith e Wesson. Costa è un giudice solo. Irriconoscibile scrive Saverio Lodato. Con il volto scavato, gli occhiali in frantumi, zeppo di sangue. Tanto sangue. Costa è vivo. Resta per 20 minuti su quel marciapiede. Arriva una pantera ma nessuno lo trasporta in ospedale. L’ambulanza tarda ad arrivare. Ci vuole un’ora per sapere che a Palermo per la terza volta hanno ucciso un magistrato. L’autopsia dirà che nessuna ferita era mortale. Ma Costa è morto alle 20,11. In molti hanno risolto i loro problemi.
La moglie Rita Bartoli apprende la notizia dalla televisione: “Istintivamente mi portai le mani alla testa, quasi un gesto di difesa, dicendo, chiedendomi come avrei fatto, cosa avrei fatto”.
Palermo è distratta dalle vacanze. Non finge neanche grandi onori a Gaetano Costa, quel giudice nisseno e comunista che voleva rivoltare la città come un calzino. La camera ardente al tribunale ricorda il pianto dell’attuale procuratore nazionale antimafia Piero Grasso e l’incontro della vedova con Vincenzo Geraci. Pochi anche i magistrati ai funerali del collega in Duomo. Per alcuni sarebbe risultato imbarazzante salutare quel feretro. Non c’è neanche il cardinale Pappalardo con le sue segnanti omelie. E’ fuori città. Leonardo Sciascia, deputato radicale siciliano, con un’interpellanza si prende la briga di avanzare il sospetto che il suo vecchio amico antifascista è stato ucciso dall’isolamento dei colleghi. Una tesi condivisa da molti e che sarà sempre contestata dai diretti interessati con esposti e tentativi riusciti di crearsi nuove patenti di giudici antimafia. Un altro parlamentare scrive un articolo su Rinascita, la rivista culturale del Pci. Il 22 agosto 1980 si legge “che l’indagine promossa dal procuratore Costa e portata avanti dai magistrati dell’ufficio istruzione di Palermo ha messo in evidenza la molteplicità dei legami mafiosi nel triangolo Palermo-Milano-New York con al centro l’impero di Sindona”. Chi scrive si chiama Pio Latorre, darà il nome ad una legge che cambierà la lotta alla mafia. A caro prezzo perché sarà ucciso due anni dopo insieme al suo autista. Dei legami di Sindona con la mafia non si preoccupano in molti. Le carte di Costa resteranno nei cassetti. Anche per gli esecutori materiali del delitto Costa c’è disattenzione a Palermo. Nessuno è in grado di fornire un identikit del killer. Nessuno ha visto. Qualcuno si ricorda che il 2 agosto in via Cavour è stato fermato un giovane sospetto rapinatore. Ha 24 anni, incensurato, si chiama Salvatore Inzerillo. Ai poliziotti dell’epoca non balena l’idea che il giovanotto è omonimo e parente del boss inquisito da Costa. Inzerillo dopo l’omicidio è uccel di bosco. Bene racconta a riguardo lo scrittore Alfio Caruso: “Si presenta in procura l’11 agosto accompagnato dall’avvocato Nino Filaccia, legale anche di Riina. Dice di essere andato via perché i giornali parlavano di lui e il sostituto che l’interroga Guarino gli crede”. Inzerillo viene rilasciato. Solo uno non molla la presa. E’ il capo della Criminalpol e si chiama Bruno Contrada e trova indizi nei confronti del presunto killer anche per il delitto Mattarella. Ma il questore Nicolicchia e il capo della Mobile Impallomeni non sentono ragioni. Sul versante giudiziario, le indagini spettano per competenza territoriale a Catania e se ne incaricano il procuratore capo della Repubblica Scalia e il giudice istruttore Cardaci: non potendo costoro avere una visione completa del quadro mafioso della Sicilia occidentale, Contrada, come capo della Criminalpol palermitana, pur non avendone il dovere, ritiene di dover mandare un rapporto sulle cosche palermitane alla Procura di Catania il 15 dicembre 1980. E’ lui stesso a portare a Catania il rapporto che, oltre alla sua firma, porta anche quella del capo della Squadra Mobile di Palermo Giuseppe Impallomeni e del capo del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo, Santo Rizzo (questi ultimi due titolari ufficiali delle indagini sull’omicidio del procuratore Costa). Il rapporto inizia con una premessa generale sulla mafia e sui delitti “eccellenti” avvenuti a Palermo fino a quel momento, passando poi ad analizzare le relazioni fra mafia siciliana e mafia americana e facendo, a questo proposito, il nome di Salvatore Inzerillo senior, e delle famiglie Spatola, Di Maggio e Gambino: proprio su queste famiglie Contrada indagava in quel periodo su delega dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Roma, ed è per questo che, alla fine del rapporto, le indica come mandanti dell’omicidio del procuratore Costa. Secondo Contrada, la fine di Costa sarebbe stata determinata dal rigore con il quale il procuratore aveva convalidato tutti i 28 arresti, effettuati dalla Squadra Mobile di Palermo nell’operazione del 5 maggio 1980. Dopo la morte di Costa, tra agosto e novembre del 1980, 16 dei 28 arrestati furono scarcerati.
“Prima di portare questo rapporto a Scalia” – racconta Contrada durante il processo a suo carico, nell’udienza del 22 novembre 1994 – “ritenni opportuno, per deferenza, farlo leggere al sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Giusto Sciacchitano, che si era occupato delle indagini sulla famiglia Spatola prima che le avocasse a sè il nuovo procuratore di Palermo, Vincenzo Pajno. Seppi poi che quanto avevo descritto nel rapporto aveva formato oggetto di un esposto di tutti i sostituti procuratori di Palermo al Consiglio Superiore della Magistratura. Quest’esposto si riferiva al blitz del 5 maggio 1980 (scippatomi dal questore Immordino) e in esso si affermava che il procuratore Costa seppe di quest’operazione soltanto dopo e lo seppe addirittura dai giornali. Vorrei sottolineare ancora una volta che io non avevo alcun dovere di fare quel rapporto del 15 dicembre 1980, perchè le indagini le seguivano il capo della Squadra Mobile Impallomeni e il capo del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo Santo Rizzo. Avrebbero dovuto pensarci loro, ma non lo fecero. Io pensai di fare questo rapporto per dare il mio contributo alle indagini e, comunque, feci firmare ugualmente il rapporto a Impallomeni e Rizzo”.
I veleni di Palermo alla fine ostruiscono la ricerca della verità. Ci vorranno tre anni per spiccare un mandato di cattura contro il “palo” Inzerillo. Ma ne passano altri quattro ancora prima che Salvatore torni dall’America in manette arrestato dal Fbi per aver aperto il locale Leo’s pizza in Virginia affiliato alla pizza connection dei Gambino.
Ma a Palermo ora sono sulla scena i pentiti. Che parlano di molte vicende. E non manca il delitto Costa. Don Masino Buscetta e Salvatore Contorno ai giudici palermitani raccontano che l’ordine di uccidere sarebbe partito dal cugino omonimo dell’unico imputato. Totuccio Inzerillo non può essere incriminato perché è stato ammazzato dalla pulizia etnica dei corleonesi l’11 maggio del 1981. La tesi, in verità molto minima, è che il capomafia non sopportava che il giudice potesse aver eseguito quei 55 arresti. Il pentito Francesco Marino Mannoia porta notizie de relato apprese da Stefano Bontade. Che è morto ammazzato un mese prima di Inzerillo. La tesi è uguale. La vendetta contro il pugno di ferro di Costa. Il commando di morte sarebbe composto dallo stesso boss Totuccio Inzerillo, dal fratello Francesco, anche lui accoppato in un agguato in America, e dal giovane killer Giovannello Geco, mentre Salvatore Inzerillo avrebbe fatto il palo.
Contro questa tesi la moglie del giudice, Rita Bartoli, e la figlia Valeria rinunciano a costituirsi parte civile scrivendo una lettera alla Corte di Catania dove si celebra il procedimento. Nell’accorata missiva si legge “Non posso accettare questo processo, che mi offre come unico imputato l’ultimo straccio. Il mio non è un gesto di rinuncia, ma la pretesa di ottenere giustizia sino in fondo”. Si costituirà parte civile il figlio Michele che con l’assistenza dell’avvocato Zupo cercheranno di incardinare il processo nella direzione alta. Dichiarerà a chiare lettere Michele Costa al tribunale di Catania: “Non si è mai voluto indagare nella direzione giusta. I veleni della Procura di Palermo sono stati decisivi, determinanti per l’assassinio di mio padre”. Il tribunale si prende la briga anche di verificare il rapporto Guazzelli. Redatto da un maresciallo che ha appreso da un confidente che a sparare al giudice sono stati Tanino e Peppino, nomi identificati di due picciotti della cosca Lauria di Agrigento. Solo che il confidente Giuseppe Antonio Galvano alla corte sotto giuramento afferma di non aver detto un bel niente al maresciallo Guazzelli. Venti udienze di processo in quattro mesi. Un’appassionata arringa dell’avvocato Zupo. L’otto aprile del 1991, undici anni dopo il delitto, il tribunale di Catania assolve l’unico imputato. Salvatore Inzerillo con le lacrime agli occhi, convinto forse di dovere essere l’unico capro espiatorio per ordine superiore, vistosi prosciolto ai cronisti dice “Adesso dovrò tornare a lavorare, voglio recuperare il tempo perduto”. Ma l’ossimoro di questa controversa storia processuale emerge nella motivazione della sentenza. Dove l’assoluzione di Inzerillo viene spiegata alla luce della tesi sostenuta dalla parte civile. Infatti si legge in quelle carte “E’ aleggiata su alcuni episodi (e ciò dicasi per i continui avvicendamenti ai vertici della Guardia di Finanza di Palermo) l’ombra nefasta della P2 di Licio Gelli. Occupandosi quindi di tali moventi [quello della vendetta del boss Inzerillo per la convalida degli arresti dei suoi gregari, e quello di chi, ben più in alto, aveva assoluta necessità di fermare quelle indagini] ritiene la Corte di non essere assolutamente nelle condizioni di potere affermare che il primo (convalida degli arresti) costituisca il vero ed esclusivo movente dell’omicidio e di potere escludere che sussista altro movente alternativo o concorrente”. E nella stesse motivazioni non mancano critiche a chi fece le prime indagini del delitto Costa quando si apprende che “E proprio prendendo le mosse da tale movente [quello della vendetta del boss Inzerillo], e, può ben dirsi, almeno con riferimento alla prima fase delle indagini, mantenendosi nell’esclusivo ambito dello stesso (ed è forse questa la principale censura che può muoversi agli inquirenti), particolare e decisivo peso è stato attribuito, come si è detto, all’accertata presenza sulla scena del delitto, appena due giorni prima della sua consumazione, dell’odierno imputato, lontano parente del ben più celebre boss Totuccio Inzerillo”. Insomma si doveva indagare su piani ben alti. Dove puntava Costa. Il processo d’appello con la conferma di assoluzione che arriva a sentenza cinque giorni dopo la strage di Capaci (Cosa Nostra continuava a giustiziare giudici) non appassiona più nessuno. Ancor meno nel 2003 appassiona l’ennesimo pentito, tale Salvatore Facella, che racconta la sua verità appresa de relato, tanto per cambiare . Secondo il collaboratore di giustizia il procuratore venne assassinato “da Inzerillo e da suo zio Di Maggio”. “Ciccio Intile – dice a verbale Facella – mi ha raccontato che Di Maggio, durante una riunione fra boss, si vantava che il nipote (Inzerillo) si era allontanato perche’ doveva commettere un fatto, che si era comportato da malandrino, cioe’ vantava che il nipote aveva ucciso il procuratore Costa”. Ma la storia del giudice Costa non possiamo ridurla a cantata dei pupi siciliani. Quello che resta è l’impegno dei suoi veri amici, ma soprattutto della sua famiglia. E’ la storia di Rita Bartoli Costa, una donna che prende in mano l’eredità del marito. Subito dopo l’omicidio riceve a casa sua i senatori Pecchioli e Latorre a cui rivela tutti i meandri delle vicende che hanno determinato l’assassinio del consorte. Rita si lega a Giovanna Giaconia, la moglie di Terranova e costituiscono l’Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia che è stata un punto di riferimento nella mobilitazione popolare contro Cosa Nostra. Rita e la altre raccolgono migliaia di firme per un appello al presidente Pertini e ai governi regionali di Calabria e Sicilia per un serio impegno delle istituzioni contro la criminalità organizzata. La proposta lanciata dalle donne del Pci calabrese e siciliano chiede l’approvazione di quella che diventerà la legge Rognoni-Latorre, per far luce sui delitti politici della mafia e dare un sostegno serio all’occupazione meridionale. Rita è la prima firmataria. Sono ricevute da Pertini. Nasce l’Associazione che non è un club di vedove ma che coinvolge molte donne. Comincerà la lotta per la costituzione di parte civile nei processi. All’inizio respinta. Poi sempre più accettati. Rita viene eletta per due volte tra i banchi dell’Assemblea regionale siciliana nel gruppo comunista. Diventa una protagonista della vita politica siciliana. Non mollerà mai nella difesa della memoria del marito e nel reclamare giustizia non accontentandosi di verità comode a molti. Quando le inchieste sono ferme, in una clamorosa intervista al Corriere della Sera il 14 settembre 1983 dichiara “Mio marito fu lasciato solo a firmare i mandati di cattura contro la cosca Spatola-Inzerillo. Qualcuno lo additò addirittura come unico responsabile di quei mandati. Lo andarono a raccontare in giro agli avvocati dei mafiosi, ai giornalisti”. Rita Bartoli parla nelle scuole, partecipa alla Fondazione che porta il nome di Gaetano Costa. Il 6 agosto del 2000 la moglie del giudice, mentre si celebra in chiesa la commemorazione per il ventennale della morte impunita del Procuratore della Repubblica, decide di prendere la parola e lascia una sorta di testamento spirituale affermando: “dopo tanti anni non posso non dire che mi mortifica e che mi addolora ancora dover prendere atto che tra i tanti pentiti che hanno parlato di tutto e del contrario di tutto, nessuna ha saputo dire dell’uccisione del Procuratore Costa.Fatta eccezione del cosiddetto “principe dei pentiti” il signor Buscetta, che parlò del delitto Costa come da copione valido a scagionare tutti addossandone la sola responsabilità a un certo mafioso “allora emergente” il quale era convinto che uccidendo Costa, avrebbe dimostrato tutta la sua forza ai grandi capi.Dopo vent’anni ho il diritto di pensare che i mandanti del delitto Costa non si sono voluti cercare né trovare, nel rispetto della logica dominante secondo la quale i morti sono morti e i vivi debbono sopravvivere e magari fare carriera ed essere rispettati… Mi rimetto alla loro coscienza a alla loro sensibilità Signori Magistrati, perché la Giustizia è la più importante delle amministrazioni dello Stato e, anche se tanti anni sono passati, loro non dovranno mai dimenticare la solitudine in cui Gaetano Costa fu lasciato, solo, a contrastare l’impatto con la criminalità di questa città: e il modo ancor mi offende”.
Rita muore tre anni dopo, il 19 gennaio del 2003 la domenica che allo stadio della Favorita viene esposto lo striscione “Tutti uniti contro la mafia” in risposta a quello che un mese prima anonimamente chiedeva l’abolizione del 41 bis. Resta nel ricordo di molti questa donna tosta che ha difeso sempre la memoria. Lo fa anche in occasione del quindicesimo anniversario della morte del marito scrivendo a Massimo D’Alema, all’epoca segretario del Pds :“Alla manifestazione non era presente alcun rappresentante del PDS; anche i “mafiologhi” ufficiali del Partito, sempre tanto attenti e presenti nelle sfilate della mistificazione hanno brillato per il loro silenzio.
Considerato che una così assoluta e completa assenza non può essere un fatto casuale Ti sarò grata se vorrai spiegarmi le ragioni ed il senso di una siffatta scelta politica del Partito; scelta per la quale i “nostri” morti, parlo anche di Terranova, Chinnici, Pio La Torre, devono essere dimenticati nella ingiustizia per consentire ad alcuni di costruirsi in tal modo immagine e ruolo anche attraverso la “mitizzazione” di personaggi i cui atti dovranno, prima o poi, essere riconsiderato nella loro reale valenza.
Con tutta l’amarezza di cui sono capace”. Un testimone raccolto da suo figlio Michele, che nell’ultimo anniversario del 2008 alla commemorazione fatta dal presidente del Senato, Renato Schifani, e dal guardasigilli Alfano, non vedendo il ministro ombra della Giustizia del Pd, Piero Fassino, lo ha duramente investito con una polemica sfuggità ai più. A sinistra ormai certe memorie e appartenenze non si ricordano più con passione.
L’avvocato Michele Costa è una bella figura. Anomala come il padre. Quando lo vado a trovare nel suo studio nel centro di Palermo per reperire documenti e testimonianze resto colpito nel vedere il disegno originale di Bruno Caruso apparso su L’Ora di cui si è parlato nel capitolo dedicato a Scaglione. Michele Costa è stato compagno di scuola di Ayala, ha conosciuto Sciascia e Falcone, ha intensamente vissuto la Palermo dei veleni, delle speranze di riscatto e delle stragi. Ha fatto l’avvocato per i parenti delle vittime che non trovavano difesa. Uscito dal partito in polemica dopo molte insistenze accetta di fare l’assessore alla legalità come indipendente nella giunta Cammarata a Palermo. Chiede carta bianca. L’ottiene. Ma si dimette per le fronde interne -che dice- gli impediscono di mantenere l’impegno assunto.
L’avvocato Costa ha un ruolo decisivo in una vicenda che merita di essere raccontata. E’ quella di Giusto Sciacchitano. Il sostituto che non volle firmare i mandati di cattura e che fa sapere all’esterno chi li ha ordinati. Quando per la prima volta il magistrato si candida a far parte della Procura nazionale antimafia, Michele Costa scrive al presidente della Repubblica e al Csm ricordando i fatti legati a quella tragica riunione per suo padre. Giusto Sciacchitano ha presentato la sua collaborazione con Giovanni Falcone, ha anche istruito il processo contro gli Inzerillo dopo la morte del giudice Costa. Il Csm di Scalfaro e Galloni in quel tragico 1992 di stragi così gravi non può ignorare quella denuncia e compie un capolavoro di gesuitismo. Perché il verbale deliberato dal Csm pur riconoscendo “eccellenti qualità e indubbie attitudini all’incarico” al magistrato deve riconoscere impeditivi i rilievi posti da Michele Costa. Anche se il Csm si sente in dovere di spiegare che “nonostante le plurime archiviazioni deliberate dal Consiglio superiore nell’arco di un decennio in ordine alle vicende oggetto del predetto esposto, e pur risultando largamente inesatti gli ulteriori rilievi dell’avvocato Costa, come è dimostrato dalla memoria e dai documenti prodotti dal dottor Sciacchitano il 15 dicembre 1992 la Commissione ha infatti ritenuto che comunque le vicende di cui trattasi determinano una situazione che non consente di assegnare alla Dna il dottor Sciacchitano”. La “situazione” cambierà qualche tempo dopo. In una nuova fase il solito esposto di Costa non sarà recepito e Giusto Sciacchitano viene chiamato a far parte della Direzione Nazionale antimafia. Dove ancora oggi opera celebrando il ricordo di Falcone e Borsellino.
Michele Costa porta addosso la toga del padre nelle udienze. La mamma la prese dalla scatola dove l’aveva riposta consegnandola a lui per partecipare al primo maxiprocesso di Palermo. Ma l’avvocato Costa non accetta le verità precostituite. Al pari della madre che gli strinse la mano al processo di Catania ritiene che Contrada abbia ben operato. Lo ha affermato anche in un’intervista al Corriere della Sera. Pur conoscendo Falcone, il figlio del giudice Costa non crede a Buscetta. Storicizzando il fatto che la criminalità organizzata siciliana già ad inizio del ‘900 era abituata a collaborare con la giustizia per eseguire le sue vendette. La mafia buona e quella cattiva non esistono. Esiste la zona grigia invece e le carte di Costa rimaste chiuse nei cassetti che nessuno ha aperto. Michele Costa continua ad impegnarsi nella fondazione che porta il nome del padre e ad essere uno scomodo a Palermo. Ha fatto stampare da un editore degli utili “pizzini” della legalità. Vi sono riportati diversi significativi scritti del giudice ucciso dalla mafia ritrovati tra i suoi appunti. Tra questi anche la tipologia dell’omicidio mafioso che presagisce e fotografa il suo: “Una … persona in strada a passeggio viene avvicinato da una o più persone che dopo averlo fulminato a colpi di arma da fuoco si allontana con la macchina da cui è o sono scesi… La macchina risulterà essere stata rubata tempo prima, sarà abbondonata dopo centinaia di metri. Nulla però si saprà sul perché, su chi ha ordinato la uccisione: si faranno delle ipotesi, da porre in relazione al genere di vita della vittima, ai suoi affari, alla sua attività; nessuna certezza, o meglio si dirà che aveva disturbato gli affari della mafia o che aveva tradito e quindi era stato punito dalla mafia. Nulla di nulla, però, di specifico o di concreto”. L’unica concretezza che abbiamo della morte di Gaetano Costa è che aveva dato fastidio alla mafia. Era rimasto solo o quasi nel Palazzo dei veleni che poca giustizia ha dato ai siciliani. E come scrisse Leonardo Sciascia “Anche questo è mafia”.

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